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sabato 10 ottobre 2015

Torno presto pt.5

Il giorno dopo, il tempo andava di pari passo con il mio umore. Pioveva a dirotto, lampi e fulmini invadevano il cielo. Non sembravano di certo i primi giorni di aprile. Decisi che non avrei potuto rimanere tutto il giorno in casa a rimuginare su quanto odiassi il mondo, su quanto mi sentissi solo, o a prendermela con Dio per avermi portato via l’unica mia ragione di vita. Così decisi di fare una cosa che, ci pensai, non avevo mai fatto: decisi di chiamarla. Scelsi di farlo da una cabina telefonica, almeno avrei avuto la scusa per andare in giro con quel tempo da film horror. Uscì di casa e arrivato alla cabina ero già zuppo dalla testa ai piedi. La pioggia batteva incessante su quel vetro rovinato. Rovinato dal tempo, rovinato da sporchi indelebili guidati da mano furtive, mani che scrissero promesse e giuramenti d’amore già infranti nel momento in cui l’inchiostro aveva iniziato a sporcare la superficie, una volta trasparente. Le gocce continuavano a scendere, una dopo l’altra, lanciandosi in una curiosa corsa ogniqualvolta si infrangevano sulla parete bagnata, inarrestabili aggiravano ostacoli e correvano, e correvano ancora, fino a cadere sfinite sull’asfalto freddo. Chiuso in quel piccolo spazio i contorni erano sfocati, i vetri bagnati distorcevano le immagini  e i rami degli alberi sembravano artigli pronti a prendermi. Ma non ce l’avrebbero mai fatta: io ero lì, al sicuro, e loro erano soltanto dei rami rinsecchiti dal gelo dell’inverno appena trascorso. Il silenzio era assordante, le mie mani si torturavano a vicenda, il tempo sembrava essersi fermato. Il nodo alla gola era più stretto che mai, quasi quanto quello spazio che era stata la prigione di molti altri prima di me. C’era chi aveva gridato più di un’ora, fino a che la voce usciva fuori, fino a che la gola non bruciava, per ricevere solo una risposta muta. C’era chi aveva pianto lacrime amare, si era aggrappato al vetro liscio per la disperazione, la voglia di rimediare, di ricominciare, di tornare a sorridere con chi di lacrime non ne aveva versata nemmeno una, e l’aveva lasciato lì a raccogliere i pezzi di un’anima che non sarebbe mai tornata la stessa. C’era anche chi si mordeva le labbra e respirava in silenzio, senza parlare, perché le parole che arrivavano al suo orecchio erano troppo forti, troppo pesanti da digerire, come pugni nello stomaco. E se ne stava semplicemente in piedi, come una statua in un museo, pregando che la cornetta tacesse il prima possibile, ponendo fine a quel supplizio.  E poi c’ero io. Io che stavo per compiere il gesto più coraggioso della mia vita. Inserii le monete, alzai la cornetta, digitai il numero senza alcuna esitazione, lo sapevo a memoria. La mia mano era tremendamente sudata e scivolava sul vetro della cabina. Il cuore batteva all’impazzata, ma si fermò, con un tonfo sordo, quando udii : “Pronto?”. La lingua si bloccò, il cervello si era ingarbugliato completamente. La voce di un uomo. Riuscivo soltanto ad ansimare. “Si può sapere chi è?”. No. Non puoi saperlo  Soprattutto tu. Non puoi saperlo, non sei lei. Attaccò. Caddi a terra. Luna aveva conosciuto un altro uomo. Il solo pensiero che altre mani, che non fossero le mie, la toccassero, mi faceva letteralmente uscire di senno. Lei era mia, era la mia anima gemella, era stato scritto all’inizio del mondo che ci saremmo amati. Lui non aveva il diritto di possederla, perché, ne ero sicuro, lui non l’amava, non ne era capace, era troppo per lui. Ero certo che avesse trascurato tantissimi suoi piccoli dettagli, che io solo ero riuscito a notare. Lui non le avrebbe scaldato i piedi le notti d’inverno. Lui non avrebbe amato il profumo di miele e sole dei suoi capelli nel modo in cui lo facevo io. Non le avrebbe baciato gli occhi e la punta del naso, fredda anche d’estate. Non l’avrebbe portata al mare sotto la pioggia, né ai suoi concerti preferiti. Non l’avrebbe capita, ascoltata e trattata come meritava. Lui non era un uomo. Era un intruso nella mia e nella sua vita. E lo odiavo e invidiavo al tempo stesso. Io amavo Luna nel modo giusto. Lui però la stringeva quando ne aveva voglia. Io ero solo, lui trovava lei sul divano finito il lavoro. Perché? Cosa avevo fatto di male? Cosa aveva fatto lui di grande? Era tutto sbagliato. Avrei tanto desiderato possedere una macchina del tempo, per vedere se avessi fatto qualcosa di sbagliato, detto qualcosa di ingiusto. Ma non era possibile. Che ero senza lei, era l’unica cosa di cui ero certo. Che mi restavano solo i ricordi, era tutto ciò che dovevo accettare. Déjà-vu, flash, ricordi continui e indelebili, milioni di immagini  di lei, di noi che si alternavano in un dolorosissimo circolo vizioso. Agosto 1980. Avevo diciotto anni e tutto quello che mi interessava era divertirmi in discoteca con i miei amici. L’estate era quasi al termine, ed io avrei dovuto decidere che fare della mia giovane vita. Università, lavoro o dolce far niente? Ero davvero indeciso. Quella sera mio padre, banchiere, aveva organizzato una cena con certi pezzi grossi suoi amici, per indirizzarmi sulla sua strada. Dire che mi stessi annoiando, sarebbe troppo riduttivo. Parlavano di mutui, azioni, conti strapieni e mogli che spendevano l’impossibile. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. E mentre mi trovavo ad ascoltare ricconi sconosciuti la vidi per la prima volta. Scarpe blu, non troppo alte. Gambe lisce, un vestito del color delle scarpe, stretto, con una profonda scollatura dietro la schiena. Una collanina d’oro bianco le ornava il collo e i capelli erano raccolti in una morbida acconciatura. Gli occhi verdi erano evidenziati da un trucco leggero e aveva labbra al sapor di albicocca. Ero frastornato, non riuscivo a far niente, tranne che guardarla. Sedeva al mio stesso tavolo con la mia stessa aria annoiata. In quegli occhi smeraldo lampeggiava la preghiera “Qualcuno mi porti via da qui!” , che ad un tratto si riflesse nei miei “Fuggiamo?”. Una conversazione silenziosa, sguardi complici, una scusa per alzarsi dal tavolo prima della fine della cena, -un leggero malessere-, aveva detto lei, -una telefonata importante-, avevo detto io. Fuori dal ristorante lei si tolse le scarpe: “Sono anche scomode, oltre che tremendamente brutte!” aveva riso lei. I suoi passi adesso risultavano morbidi, nulla a che vedere con il fastidioso ticchettio precedente. Silenziosi uscimmo dal parcheggio, ed io la presi in braccio: avevo paura che a piedi nudi potesse farsi del male. Era calda e leggera, e profumava di miele e sole. Il cuore le batteva forte, era in braccio ad uno sconosciuto, su una strada che non sapeva, verso un posto ignoto, e aveva abbandonato la cena organizzata da quell’importante amico di suo padre, banchiere anche lui. Ma non voleva pensarci troppo, si sentiva felice e ribelle. Entrambi avremmo dovuto affrontare l’ira dei nostri genitori, ma non ce ne importava più di tanto. La spiaggia era poco distante, e sorrise non appena sentì l’odore del sale e il rumore delle onde. “Io comunque mi chiamo Luna, grazie di avermi salvata.” Sorrisi. “Io sono Stefano, grazie per avermi chiesto di salvarti.” La serata continuò tra sguardi e sorrisi, e soprattutto lei rise, rise tanto. Rise quando  persi l’equilibrio e cademmo entrambi sulla sabbia fresca, quando giocammo a rincorrerci, correndo avanti e indietro sul lungomare. E rise, di cuore, quando ci ritrovammo a confessare di non aver la  più pallida idea di cosa fare della nostra vita. Era una ragazza intelligente, simpatica ma anche permalosa e tagliente. “Smetti di guardarmi con quegli occhi di pesce, non perché sono fuggita con te allora vuol dire che tu mi piaccia.” Rimasi di sasso, deluso e offeso. E lei scoppiò in una gran risata, la musica più bella che io avessi mai udito in vita mia. Sentivo già di amarla. E di volerla accarezzare, e baciare, e stringere forte, e portarla via, e non lasciarla andare mai e poi mai, perché Luna –aveva anche uno splendido nome a parer mio- era la creatura più deliziosa e perfetta che fosse stata mai creata. E la volevo tutta per me. D’istinto la baciai, ma non si ritrasse, come invece mi aspettavo. E da quel giorno tutto aveva acquistato senso. Dopo pochi mesi i miei genitori erano felici di conoscerla, mia madre l’adorò da subito. Dicembre, il primo Natale insieme. Febbraio, il nostro primo viaggio, a Roma, tre giorni idilliaci. Un anno dopo ci sposammo, giovani, felici e innamorati. Non avrei mai immaginato di sposarmi così presto. E poi c’era stato così tanto amore che i nostri due cuori faticavano a contenerlo.

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