Ma no, non fece niente di tutto questo. Probabilmente si era accontentata di qualche conchiglia, bella soltanto fuori. Io invece oramai somigliavo più ad un robot: gesti meccanici, risposte automatiche. Lavoro-casa, casa-lavoro. Molti amici mi avevano consigliato di andare da qualcuno, insomma sì, da uno strizzacervelli per vedere se le mie rotelle fossero ancora tutte al loro posto. Altri ancora mi avevano detto di far scorrere il tempo, e tutto si sarebbe aggiustato da sé. Ci fu addirittura chi mi disse di iscrivermi a un sito di incontri su internet, uno di quelli per giovani divorziati che ancora hanno un po’ di forza per amare. Uno di quelli in cui basta scrivere la tua “tipa ideale” e subito ti appare una sfilza di nomi e foto, di tante donne diverse, che nella maggior parte dei casi non hanno nulla in comune con te. Una volta ci provai per pura curiosità. Appena mi registrai, avevano iniziato a scrivermi donne di tutto il paese, chiedendomi qualsiasi cosa, dal numero di scarpe al mio lavoro. Mi trovai in sintonia da subito con una di loro, Charlotte. Italo-americana, mora, occhi verdi e grandi, corpo snello, almeno questo era ciò che si capiva dalle foto che m’inviava. Iniziammo a parlare tutti i pomeriggi, poi tutte le sere, e dopo un mese di conoscenza virtuale avevamo deciso di incontrarci. In un bar molto frequentato, aveva detto lei. Le donne giustamente hanno sempre più paura di uscire con uno sconosciuto per la prima volta. Hanno ragione: anche dietro il viso da angelo più delicato, potrebbe celarsi un sadico, un violentatore, un pazzo. Ma non era di sicuro il mio caso, ero più morto che vivo. A prima vista, sembrava davvero una ragazza fantastica, ed anche ad una seconda occhiata più attenta, aveva dimostrato che era proprio il genere di persona che mi avrebbe riportato a galleggiare sull’orlo dell’acqua. Era passata già più di un’ora dalla prima parola e tutto andava stranamente bene, troppo bene. Non avevo pensato a Luna per tutto il tempo, avevo solo ascoltato il fiume di parole che Charlotte aveva iniziato da subito a rovesciarmi addosso, lasciandomi così strabiliato dall’intelligenza di quegli occhi di cerbiatto. Ma in un attimo tutto degenerò, le bastò scansarsi i capelli dal viso e sorridermi. Luna lo faceva sempre. Ed iniziai con i soliti stramaledetti paragoni che avevo sempre il vizio di fare. Pensavo tra me e me: “Ha il suo naso, gli stessi occhi e l’arco delle sopracciglia. Ha il suo stesso modo di parlare e di sicuro anche di camminare quando è nervosa. Ha un sorriso simile, i capelli tagliati allo stesso modo. Si veste anche in modo simile, ha lo stesso vizio di prendermi in giro. Dio Luna quanto mi manchi, ora ti bacio, no non posso, non sei tu. Ti prendo e ti bacio, no non posso. Dio sto impazzendo, aiuto devo baciarla e toccarle i capelli, sentire il profumo della sua pelle, dirle che la amo. Luna, non sei tu. Dio quanto mi manchi. Ti somiglia tanto. Sembri quasi tu. Ti amo, ti amo davvero. Torna da me. Ti prego.” Tornai in me stesso, la guardai per un attimo e scappai via, corsi più che mai, fino a sentire i polmoni bruciati e la gola in fiamme. Non mi feci più sentire, mai, mai, mai più. Era troppo uguale a lei. Avevo i piedi stanchi, e mi ritrovai a notte fonda in mezzo al nulla, a gridare in silenzio, senza emettere alcun suono, sotto un cielo scuro e stelle bianche che se ne fregavano di me e del mio dolore. Ad un tratto realizzai di trovarmi di fronte alla stazione principale: avevo qualche soldo in tasca, la carta di credito e tanta voglia di scappare. Gli ingredienti giusti per salire sul primo treno. Decisi di andare a Roma, la città preferita di Luna. Ci eravamo andati insieme tantissime volte. Feci il biglietto, la gente intorno mi squadrava. Non avevano mai visto un uomo distrutto senza bagagli probabilmente. Il treno si allontanava dalla banchina, piano, lento, come a suggerirmi di ripensarci, di scendere da quel maledetto vagone, di fuggire, ma da qualche altra parte. Certo, lontano, lontano da qui, da tutti, da lei, che era la cosa più bella ma allo stesso tempo la cosa peggiore che mi fosse mai capitata. Mentre guardavo il paesaggio che cambiava, pensavo che era ora di cambiare anche per me. Di prendere una decisione. Di arrivare ad una conclusione. Di capire perché mi ero sempre attaccato al coltello che mi lacerava la pelli tutti i giorni, senza sosta, senza pause. Un dolore continuo, di cui provavo quasi piacere. Semplicemente di mandare tutto all’inferno e creare un nuovo me. Ma il treno continuava a correre, acquistando sempre più velocità, come a dire che oramai era troppo tardi, il tempo era scaduto, niente più secondi per pensare, niente più attimi per esitare. La decisione andava presa, ma io ero troppo debole, come d’altronde ero sempre stato. Debole, distratto, incoerente. Ma che stavo facendo? Ma cosa avrei voluto fare? Volevo davvero rivedere quei luoghi pieni zeppi di ricordi? Le panchine dove si era poggiata, le statue che aveva sfiorato con quegli occhi sognanti, bellissimi, in cui mi perdevo tutte le volte che la guardavo? Perché non ero mai stato un uomo forte? Ero una persona inutile. Stavo male. Non stavo bene da solo. A guardare dal finestrino gli alberi che passavano, uno dopo l’altro. Che pur se c’è il vento forte loro non si spezzano. Si piegano, sempre di più, quasi fino al limite di rottura. Ma resistono. Però io purtroppo non ero un albero. Al massimo ero uno stelo spezzato di un fiore senza più petali, sottoposto ad un vento incessante, che minacciava di strapparmi dal suolo. Mentre ero perso nei miei pensieri il treno si fermò, scesi. Uscì dalla stazione e fui subito investito dalla cacofonia dei più vari rumori: clacson di auto, grida di bambini, rotelle di valigie che correvano per non perdere l’ultimo treno, giovani di ritorno dalla loro prima vacanza da soli. Roma. Chi mai avrebbe potuto dimenticare una città del genere? Sicuramente non io, e nemmeno Luna. D’un tratto si sollevò un leggero venticello che portava profumo di miele, o forse era la mia immaginazione che vagava a briglia sciolta. Profumo dei suoi capelli. E subito centinaia di coltelli affilati mi si infissero nello stomaco e caddi in ginocchio, spezzato in due da quel dolore atroce. La gente mi si raccolse intorno, preoccupata. Sto bene, dicevo, va tutto bene, ora passa. Mi ero alzato da terra quando l’altoparlante aveva chiamato i passeggeri per l’ultimo treno in direzione di Firenze. Corsi più che mai, diretto verso quel treno, senza pensare a ciò che facevo. Stessa storia di prima: biglietto veloce, niente bagagli, gente che mi squadrava. Non me ne importava niente. Volevo tornare a casa, dai miei amici, da me, convinto che sul divano ci fosse Luna ad aspettarmi, con i capelli di miele, a guardare un noioso programma in tv, senza ascoltarlo davvero, perché aspettava solo me, avrebbe aspettato solamente me, sempre. Tornato a casa le mie aspettative crollarono con il rumore di vetri rotti, lei non c’era. Lei non sarebbe tornata mai. Ricordo solo che quella notte piansi tanto. I giorni a seguire furono una sorta di coma. Luna perché sei scappata via? In tutti questi anni non ho mai trovato una risposta. Perché sei andata via? Dato che volevi proseguire per la tua strada, avresti dovuto concedermi un vero addio. Mille volte avrei preferito vedere le tue spalle che si allontanavano piuttosto che alzarmi una mattina e non trovarti più. Semplicemente perché mentre ti avrei guardata andare, ti sarei corso dietro e ti avrei detto che t’amavo, t’amavo tanto, t’amavo più del sole al mattino, t’amavo con tutto il cuore, i polmoni, le mani, i piedi, gli occhi e le labbra, i capelli e le ciglia, che si insomma, t’amavo con tutto me stesso. Ma non mi hai dato la possibilità di farlo. A quest’ora sono sicuro che saremmo stati più felici entrambi.
-Rebecca
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