Una mano le accarezzava la pelle diafana, soffermandosi
sulle vene bluastre che si intravedevano sul collo, che sembrava quasi
trasparente, illuminato dalla luce chiara dei primi raggi del sole. Respirava a
stento mentre quelle dita silenziose la sfioravano quasi fosse fragile come un
vaso di porcellana, di vetro. Occhi blu oceano la guardavano fissi, li sentiva
anche da sotto le palpebre chiuse, gli stessi occhi che aveva visto nei suoi
incubi peggiori. Il vento entrava dalla
finestra insolitamente caldo rispetto al clima di quel febbraio. E il freddo
lei lo sentiva soltanto dentro. Attenta ad ogni minimo movimento dell’altro che
le giaceva a fianco, provava a fingere una normalità che non le apparteneva
più. Con le sue piccole dita dalle
unghie mangiate, cercava anche lei la pelle di lui, con gesti misurati,
controllati, abituata ormai da un tempo che non ricordava più a stare attenta
ad ogni singolo movimento che faceva, ad ogni respiro un po’ più lungo che
prendeva, a trattenere le parole e le
emozioni, le grida. C’era stato un tempo in cui tutto questo ad Eveline sarebbe
sembrato assurdo, anche soltanto da pensare, un tempo in cui le parole erano
sussurri, e gli schiaffi erano carezze. Un tempo passato oramai da molto, che
non sarebbe tornato mai. Lui si alzò dal letto soddisfatto, si vestì ed uscì di
casa. Piangeva Eveline, quasi come una bambina, e malediceva se stessa e il
giorno in cui gli aveva detto sì. Se
avesse potuto, lei lo avrebbe fatto. Sì,
lo avrebbe mandato via. Eppure, ogni volta,
c’era qualcosa che la bloccava, qualcosa che le faceva sperare che tutto poi
sarebbe andato bene, non oggi, non domani, ma sarebbe andato bene. E’ che lei , quando era accanto a lui era
convinta di essere felice. Quando lui la guardava negli occhi, lei si sentiva
bella. E quelle poche volte in cui lui le scostava i capelli dal viso, lei si
sentiva amata. Per questo non l’avrebbe mai mandato via. Perché una donna,
quando ama e si sente amata, è capace di darti il mondo. Ma lui quel mondo non
lo voleva. A lui non interessava quello che lei avrebbe potuto dargli. E lei,
con il mondo in tasca, se lo faceva andare bene, perché lei l’amava. Sperava,
quando lui la lasciava sola tra le lenzuola, che un giorno si sarebbero
svegliati lì insieme e felici, o che perlomeno lui accennasse un po’ di
quell’amore che lei non vedeva da tempo. Che avrebbe voluto vedere. Ma lei lo
amava, e anche se avesse voluto, non l’avrebbe mai mandato via. In cucina, si chinò a raccogliere le schegge
dei piatti ancora sul pavimento, rotti come
la sua anima, come la sua vita, come lei. Una maglietta a collo alto, con le
maniche lunghe, copriva i lividi più vecchi, ma per quello sotto lo zigomo non
c’era veramente niente da fare, neanche gli occhiali lo coprivano. Aprì la porta
dell’ufficio ed entrò. “Ev, che è successo?” Una voce spaventata, un paio
d’occhi agitati, Francesca. Più vecchia di lei lavorava lì da vent’anni, tutti
i giorni, festività comprese, per mantenere la famiglia: un padre invalido, un
marito disoccupato, e una figlia non ancora maggiorenne. La guardò, sorrise:
“Ho sbattuto contro la porta, non è niente.”
Ma niente è quando una porta è davvero una porta, non la mano di tuo
marito che abusa di te. Niente è quando tuo marito torna a casa e ti accarezza,
e ti prepara la cena anche se è più stanco di te. Niente è dire ciò che pensi,
vestirti come piace a te, non aver paura di essere seguita di giorno, né
violentata di notte. Quindi questo era qualcosa, qualcosa di cattivo, ma
Eveline continuava a stare zitta, a lasciarsi maltrattare giorno dopo giorno,
convinta delle volte che fosse davvero colpa sua, se suo marito beveva, se non
riuscivano ad avere figli, se la sua vita era uno schifo, se lui la amava e la
odiava, la accarezzava e la picchiava. E tutto questo non era vero, ed Eveline
lo sapeva. Finito il lavoro, tornò a casa e preparò la cena. Non sapeva a che
ora sarebbe tornato, ma non era il caso di non fargli trovare niente da
mangiare. Lo scatto della porta la fece sobbalzare, e sentì i suoi passi in
corridoio. Non la guardò neanche in faccia, ubriaco già alle otto di sera. “La
pasta è cruda.” Uno schiaffo. “La gonna è troppo corta.” Un altro schiaffo.
Eveline cadde a terra. Gridava. Con gli occhi iniettati di sangue si era
accanito su di lei come un pazzo, cercando vani pretesti per picchiarla, e
picchiandola più forte se non ne trovava nessuno. Eveline piangeva. La guardava
con disprezzo, la insultava. Lei corse in camera da letto, chiuse la porta, la
chiave non c’era, voleva morire. C’era silenzio adesso, forse aveva deciso di
lasciarla perdere, quel mostro. Rimase in un angolo della stanza per un tempo
che parve lunghissimo e il suo cuore perse qualche battito quando udì il rumore
di passi che si avvicinavano sempre di più. Sembrava la scena di un film dell’orrore,
ma era tutto vero. Spalancò la porta con un calcio e una luce omicida gli
accendeva gli occhi. La paura diede ad Eveline la macabra possibilità di
stampare nella mente ogni dettaglio di quella sera. Così lo vide, in piedi con
le gambe divaricate, di fronte a lei, i pugni chiusi, il petto che si alzava ed
abbassava tranquillo. Di nuovo si accanì su di lei, la prese a calci mentre era
seduta, la fece alzare le strappò i vestiti di dosso, la violentò una, due, tre
volte. Eveline pregava solo che la terra si spalancasse da un momento
all’altro, che inghiottisse lui, oppure lei, che accadesse qualsiasi cosa che
avrebbe messo fine a quella tortura. Non aveva la forza di piangere, il sangue
che colava dal naso, macchiava il lenzuolo bianco, e lui non smise per metà
della notte. A lavoro finito, se ne andò sul divano e si addormentò nel giro di
pochi minuti. Eveline non riusciva a respirare, i singhiozzi le spezzavano il
fiato, il corpo era completamente indolenzito e il suo cervello faticava a
contenere tutto quel dolore. Non capiva , quella povera donna, non capiva cosa
lo avesse fatto impazzire così tanto, perché quella volta le avesse fatto così
tanto del male. “Forse aveva bevuto troppo, forse davvero la mia gonna era
troppo corta, di sicuro era una giornata no e io non ho fatto altro che
peggiorare la situazione. So che non voleva farlo, se sta ancora con me vuol
dire che mi ama.” A questo pensava Eveline il giorno dopo, mentre rimetteva i
soprammobili al loro posto e mentre guardava nel lungo specchio dietro la porta
del bagno un riflesso che non sembrava più il suo. Il viso gonfio, il corpo
graffiato e livido, le labbra spaccate, unite a lacrime che bruciavano come il
sale sulle ferite ancora aperte. Come avrebbe fatto ad uscire di casa in quelle
condizioni? Cosa avrebbe pensato la gente? Si preoccupava del giudizio degli
altri, non del fatto che suo marito l’avesse quasi uccisa la notte
precedente. “Ev, non credo tu abbia
sbattuto contro una porta stavolta. Chi è stato, di nuovo tuo marito?” Non alzava
gli occhi dal modulo che stava riempiendo, Eveline, non ci riusciva davvero.
Francesca le prese il mento, vide i suoi occhi lucidi, ci lesse il terrore
dentro. “Ev, tesoro, perché non ne hai mai parlato con nessuno? Possiamo darti
una mano tutti quanti, vieni a stare da me per un po’ di tempo, c’è posto anche
per te, vedrai che andrà meglio piano piano. Quando usciamo andiamo in caserma,
tanto sta qui vicino e..” “No.” “Va bene allora rimarrai a casa tua, ma questa
cosa dobbiamo denunciarla Ev.” “Mi dispiace ma no non verrò da te e no non
denuncerò mio marito. Io lo amo, non farei mai una cosa del genere.” Lo amava Eveline, ma non capiva che giorno
dopo giorno questo immotivato amore poteva portarla alla morte. Lui sparì, e
tornò una settimana dopo, senza darle nessuna giustificazione, senza nessuna parola di scusa per averle fatto del
male, sia dentro che fuori, sembrava quasi che si fosse dimenticato della
bestia che era stato giorni prima. Un’altra settimana era trascorsa tranquilla,
lui non l’aveva sfiorata, non era entrato di notte in camera sua, avevano
vissuto nella stessa casa voltando lo sguardo dalla parte opposta, senza
parlare, lei attenta a non disturbarlo nemmeno col respiro, lui comportandosi
come se lei non esistesse nemmeno. Tutto sembrava procedere silenzioso e
tranquillo, fino ad una sera. Pioveva forte, ed Eveline rimase bloccata a lungo
nel traffico, tardando per la cena. Entrò a casa. “Con chi eri? Perché hai
fatto tardi così tardi? La cena non è pronta.” “Amore, giuro non ero con nessuno,
sono rimasta imbottigliata nel traffico per la pioggia. Adesso ti preparo
subito qualcosa, scusami, scusami.” Si infuriò ancora di più. Iniziò a lanciare
gli oggetti, gridando di aver sposato una nullità, una donna che non poteva
definirsi tale, e una quantità di insulti che Eveline avrebbe poi avuto
imbarazzo e difficoltà a raccontare. Specchi rotti, quadri storti, sedie
rovesciate e bicchieri scheggiati. Una mano sulla gola di Eveline, che
stringeva forte. Sentiva il respiro mancarle, il freddo di quella mano stonava
con il rossore sulla faccia della donna. Stava per morire, lo sentiva. Le
dispiaceva, ma almeno avrebbe smesso di soffrire a quel modo. La scaraventò a
terra facendole sbattere quasi la testa, abusò di lei, che aveva nel frattempo
iniziato a sanguinare, la prese a pugni, forte, con tutta l’intenzione e la
voglia di ammazzarla di botte. Perché era uno schifo d’uomo, un fallito, non
sapeva amare sua moglie, anzi non l’amava proprio. Era una bestia, una vergogna
per la madre che l’aveva generato e per il padre che lo aveva da sempre amato,
un rifiuto della società, un inetto, un meschino, putrido, maledetto insetto, figlio di un dio che non poteva far
altro che ripudiarlo e lasciarlo marcire nella sua stessa crudeltà. E meritava
di subire quella stessa sofferenza che Eveline aveva provato per anni. E così
lei, con tutta la forza di cui fu capace, prese la bottiglia di vetro che era
rimasta sul tavolo e gliela spaccò sulla testa. Ubriaco marcio, accusò il colpo
e per un attimo smise di torturarla, attimo di cui lei approfittò per scappare
via sotto la pioggia, con i vestiti laceri, i piedi scalzi, il sangue che
colava dalle ferite. Corse fino a
sentire i polmoni che bruciavano e le lacrime secche sulle guance, fino a casa
di Francesca, fino a sentirsi salva. Lei non le fece nessuna domanda, la medicò
e le diede dei vestiti puliti. Il giorno dopo la convinse a denunciare il
fatto, a proteggersi da quel pazzo che voleva ucciderla. I carabinieri lo
trovarono che era steso sul divano, con una bottiglia di vodka vuota tra le
mani, ubriaco fradicio. C’era Eveline, nel giardino di casa, Francesca le
teneva la mano. Lo portarono via e mentre percorreva il vialetto la guardò
negli occhi, cosa che non faceva da tempo e
le sussurrò nell’orecchio: “Io t’ammazzo
amore mio, giuro che lo farò. Appena tutto questo sarà finito smetterai di
darmi fastidio.” Un brivido le passò lungo la schiena ma non lo diede a vedere. Era finita. Era
libera, lui non le avrebbe più sfiorata nemmeno con gli occhi. A trentacinque
anni la sua vita poteva finalmente ricominciare. E Francesca le sarebbe stata
vicino, l’avrebbe aiutata a vivere di nuovo, a piccoli passi, senza farle
perdere nemmeno un momento di quella libertà tanto meritata, fino a quando non
sarebbe stata pronta di farsi un’altra vita con un altro uomo, da cui non si
sarebbe mai lasciata sottomettere, da cui non avrebbe completamente dipeso, dal
quale avrebbe saputo anche allontanarsi se necessario. Perché adesso era più
forte. Era una donna. E non c’era niente di meglio al mondo.
-Rebecca
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