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venerdì 16 ottobre 2015

NIENTE DI MEGLIO AL MONDO.



Una mano le accarezzava la pelle diafana, soffermandosi sulle vene bluastre che si intravedevano sul collo, che sembrava quasi trasparente, illuminato dalla luce chiara dei primi raggi del sole. Respirava a stento mentre quelle dita silenziose la sfioravano quasi fosse fragile come un vaso di porcellana, di vetro. Occhi blu oceano la guardavano fissi, li sentiva anche da sotto le palpebre chiuse, gli stessi occhi che aveva visto nei suoi incubi peggiori.  Il vento entrava dalla finestra insolitamente caldo rispetto al clima di quel febbraio. E il freddo lei lo sentiva soltanto dentro. Attenta ad ogni minimo movimento dell’altro che le giaceva a fianco, provava a fingere una normalità che non le apparteneva più.  Con le sue piccole dita dalle unghie mangiate, cercava anche lei la pelle di lui, con gesti misurati, controllati, abituata ormai da un tempo che non ricordava più a stare attenta ad ogni singolo movimento che faceva, ad ogni respiro un po’ più lungo che prendeva, a trattenere le parole  e le emozioni, le grida. C’era stato un tempo in cui tutto questo ad Eveline sarebbe sembrato assurdo, anche soltanto da pensare, un tempo in cui le parole erano sussurri, e gli schiaffi erano carezze. Un tempo passato oramai da molto, che non sarebbe tornato mai. Lui si alzò dal letto soddisfatto, si vestì ed uscì di casa. Piangeva Eveline, quasi come una bambina, e malediceva se stessa e il giorno in cui gli aveva detto sì.  Se avesse potuto, lei lo avrebbe fatto.  Sì, lo avrebbe mandato via.  Eppure, ogni volta, c’era qualcosa che la bloccava, qualcosa che le faceva sperare che tutto poi sarebbe andato bene, non oggi, non domani, ma sarebbe andato bene.  E’ che lei , quando era accanto a lui era convinta di essere felice. Quando lui la guardava negli occhi, lei si sentiva bella. E quelle poche volte in cui lui le scostava i capelli dal viso, lei si sentiva amata. Per questo non l’avrebbe mai mandato via. Perché una donna, quando ama e si sente amata, è capace di darti il mondo. Ma lui quel mondo non lo voleva. A lui non interessava quello che lei avrebbe potuto dargli. E lei, con il mondo in tasca, se lo faceva andare bene, perché lei l’amava. Sperava, quando lui la lasciava sola tra le lenzuola, che un giorno si sarebbero svegliati lì insieme e felici, o che perlomeno lui accennasse un po’ di quell’amore che lei non vedeva da tempo. Che avrebbe voluto vedere. Ma lei lo amava, e anche se avesse voluto, non l’avrebbe mai mandato via.               In cucina, si chinò a raccogliere le schegge dei piatti ancora sul pavimento, rotti  come la sua anima, come la sua vita, come lei. Una maglietta a collo alto, con le maniche lunghe, copriva i lividi più vecchi, ma per quello sotto lo zigomo non c’era veramente niente da fare, neanche gli occhiali lo coprivano. Aprì la porta dell’ufficio ed entrò. “Ev, che è successo?” Una voce spaventata, un paio d’occhi agitati, Francesca. Più vecchia di lei lavorava lì da vent’anni, tutti i giorni, festività comprese, per mantenere la famiglia: un padre invalido, un marito disoccupato, e una figlia non ancora maggiorenne. La guardò, sorrise: “Ho sbattuto contro la porta, non è niente.”  Ma niente è quando una porta è davvero una porta, non la mano di tuo marito che abusa di te. Niente è quando tuo marito torna a casa e ti accarezza, e ti prepara la cena anche se è più stanco di te. Niente è dire ciò che pensi, vestirti come piace a te, non aver paura di essere seguita di giorno, né violentata di notte. Quindi questo era qualcosa, qualcosa di cattivo, ma Eveline continuava a stare zitta, a lasciarsi maltrattare giorno dopo giorno, convinta delle volte che fosse davvero colpa sua, se suo marito beveva, se non riuscivano ad avere figli, se la sua vita era uno schifo, se lui la amava e la odiava, la accarezzava e la picchiava. E tutto questo non era vero, ed Eveline lo sapeva. Finito il lavoro, tornò a casa e preparò la cena. Non sapeva a che ora sarebbe tornato, ma non era il caso di non fargli trovare niente da mangiare. Lo scatto della porta la fece sobbalzare, e sentì i suoi passi in corridoio. Non la guardò neanche in faccia, ubriaco già alle otto di sera. “La pasta è cruda.” Uno schiaffo. “La gonna è troppo corta.” Un altro schiaffo. Eveline cadde a terra. Gridava. Con gli occhi iniettati di sangue si era accanito su di lei come un pazzo, cercando vani pretesti per picchiarla, e picchiandola più forte se non ne trovava nessuno. Eveline piangeva. La guardava con disprezzo, la insultava. Lei corse in camera da letto, chiuse la porta, la chiave non c’era, voleva morire. C’era silenzio adesso, forse aveva deciso di lasciarla perdere, quel mostro. Rimase in un angolo della stanza per un tempo che parve lunghissimo e il suo cuore perse qualche battito quando udì il rumore di passi che si avvicinavano sempre di più. Sembrava la scena di un film dell’orrore, ma era tutto vero. Spalancò la porta con un calcio e una luce omicida gli accendeva gli occhi. La paura diede ad Eveline la macabra possibilità di stampare nella mente ogni dettaglio di quella sera. Così lo vide, in piedi con le gambe divaricate, di fronte a lei, i pugni chiusi, il petto che si alzava ed abbassava tranquillo. Di nuovo si accanì su di lei, la prese a calci mentre era seduta, la fece alzare le strappò i vestiti di dosso, la violentò una, due, tre volte. Eveline pregava solo che la terra si spalancasse da un momento all’altro, che inghiottisse lui, oppure lei, che accadesse qualsiasi cosa che avrebbe messo fine a quella tortura. Non aveva la forza di piangere, il sangue che colava dal naso, macchiava il lenzuolo bianco, e lui non smise per metà della notte. A lavoro finito, se ne andò sul divano e si addormentò nel giro di pochi minuti. Eveline non riusciva a respirare, i singhiozzi le spezzavano il fiato, il corpo era completamente indolenzito e il suo cervello faticava a contenere tutto quel dolore. Non capiva , quella povera donna, non capiva cosa lo avesse fatto impazzire così tanto, perché quella volta le avesse fatto così tanto del male. “Forse aveva bevuto troppo, forse davvero la mia gonna era troppo corta, di sicuro era una giornata no e io non ho fatto altro che peggiorare la situazione. So che non voleva farlo, se sta ancora con me vuol dire che mi ama.” A questo pensava Eveline il giorno dopo, mentre rimetteva i soprammobili al loro posto e mentre guardava nel lungo specchio dietro la porta del bagno un riflesso che non sembrava più il suo. Il viso gonfio, il corpo graffiato e livido, le labbra spaccate, unite a lacrime che bruciavano come il sale sulle ferite ancora aperte. Come avrebbe fatto ad uscire di casa in quelle condizioni? Cosa avrebbe pensato la gente? Si preoccupava del giudizio degli altri, non del fatto che suo marito l’avesse quasi uccisa la notte precedente.  “Ev, non credo tu abbia sbattuto contro una porta stavolta. Chi è stato, di nuovo tuo marito?” Non alzava gli occhi dal modulo che stava riempiendo, Eveline, non ci riusciva davvero. Francesca le prese il mento, vide i suoi occhi lucidi, ci lesse il terrore dentro. “Ev, tesoro, perché non ne hai mai parlato con nessuno? Possiamo darti una mano tutti quanti, vieni a stare da me per un po’ di tempo, c’è posto anche per te, vedrai che andrà meglio piano piano. Quando usciamo andiamo in caserma, tanto sta qui vicino e..” “No.” “Va bene allora rimarrai a casa tua, ma questa cosa dobbiamo denunciarla Ev.” “Mi dispiace ma no non verrò da te e no non denuncerò mio marito. Io lo amo, non farei mai una cosa del genere.”   Lo amava Eveline, ma non capiva che giorno dopo giorno questo immotivato amore poteva portarla alla morte. Lui sparì, e tornò una settimana dopo, senza darle nessuna giustificazione, senza  nessuna parola di scusa per averle fatto del male, sia dentro che fuori, sembrava quasi che si fosse dimenticato della bestia che era stato giorni prima. Un’altra settimana era trascorsa tranquilla, lui non l’aveva sfiorata, non era entrato di notte in camera sua, avevano vissuto nella stessa casa voltando lo sguardo dalla parte opposta, senza parlare, lei attenta a non disturbarlo nemmeno col respiro, lui comportandosi come se lei non esistesse nemmeno. Tutto sembrava procedere silenzioso e tranquillo, fino ad una sera. Pioveva forte, ed Eveline rimase bloccata a lungo nel traffico, tardando per la cena. Entrò a casa. “Con chi eri? Perché hai fatto tardi così tardi? La cena non è pronta.” “Amore, giuro non ero con nessuno, sono rimasta imbottigliata nel traffico per la pioggia. Adesso ti preparo subito qualcosa, scusami, scusami.” Si infuriò ancora di più. Iniziò a lanciare gli oggetti, gridando di aver sposato una nullità, una donna che non poteva definirsi tale, e una quantità di insulti che Eveline avrebbe poi avuto imbarazzo e difficoltà a raccontare. Specchi rotti, quadri storti, sedie rovesciate e bicchieri scheggiati. Una mano sulla gola di Eveline, che stringeva forte. Sentiva il respiro mancarle, il freddo di quella mano stonava con il rossore sulla faccia della donna. Stava per morire, lo sentiva. Le dispiaceva, ma almeno avrebbe smesso di soffrire a quel modo. La scaraventò a terra facendole sbattere quasi la testa, abusò di lei, che aveva nel frattempo iniziato a sanguinare, la prese a pugni, forte, con tutta l’intenzione e la voglia di ammazzarla di botte. Perché era uno schifo d’uomo, un fallito, non sapeva amare sua moglie, anzi non l’amava proprio. Era una bestia, una vergogna per la madre che l’aveva generato e per il padre che lo aveva da sempre amato, un rifiuto della società, un inetto, un meschino, putrido, maledetto  insetto, figlio di un dio che non poteva far altro che ripudiarlo e lasciarlo marcire nella sua stessa crudeltà. E meritava di subire quella stessa sofferenza che Eveline aveva provato per anni. E così lei, con tutta la forza di cui fu capace, prese la bottiglia di vetro che era rimasta sul tavolo e gliela spaccò sulla testa. Ubriaco marcio, accusò il colpo e per un attimo smise di torturarla, attimo di cui lei approfittò per scappare via sotto la pioggia, con i vestiti laceri, i piedi scalzi, il sangue che colava dalle ferite.  Corse fino a sentire i polmoni che bruciavano e le lacrime secche sulle guance, fino a casa di Francesca, fino a sentirsi salva. Lei non le fece nessuna domanda, la medicò e le diede dei vestiti puliti. Il giorno dopo la convinse a denunciare il fatto, a proteggersi da quel pazzo che voleva ucciderla. I carabinieri lo trovarono che era steso sul divano, con una bottiglia di vodka vuota tra le mani, ubriaco fradicio. C’era Eveline, nel giardino di casa, Francesca le teneva la mano. Lo portarono via e mentre percorreva il vialetto la guardò negli occhi, cosa che non faceva da tempo  e le sussurrò nell’orecchio:  “Io t’ammazzo amore mio, giuro che lo farò. Appena tutto questo sarà finito smetterai di darmi fastidio.” Un brivido le passò lungo la schiena  ma non lo diede a vedere. Era finita. Era libera, lui non le avrebbe più sfiorata nemmeno con gli occhi. A trentacinque anni la sua vita poteva finalmente ricominciare. E Francesca le sarebbe stata vicino, l’avrebbe aiutata a vivere di nuovo, a piccoli passi, senza farle perdere nemmeno un momento di quella libertà tanto meritata, fino a quando non sarebbe stata pronta di farsi un’altra vita con un altro uomo, da cui non si sarebbe mai lasciata sottomettere, da cui non avrebbe completamente dipeso, dal quale avrebbe saputo anche allontanarsi se necessario. Perché adesso era più forte. Era una donna. E non c’era niente di meglio al mondo. 

                                                                    -Rebecca 

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