“Torno presto”. Mi aveva scritto un biglietto con queste due parole sopra, marchiate della sua grafia ordinata ma allo stesso tempo incomprensibile, che era solo la sua. L’aveva lasciato sul suo cuscino, accanto a me, alzandosi dal letto ancora caldo. Un biglietto come tanti altri, come quelli che mi lasciava spesso, magari sullo specchio del bagno, o sul frigo, sempre troppo poco pieno, che di fare la spesa non avevamo mai tempo. E preferivamo mangiare qualche schifezza sotto le stelle di quel nostro balcone che di romantico non aveva proprio nulla. Logorato dal tempo, trascurato da noi, senza piante, senza fiori, che invece ci piacevano tanto. Ma non avevamo mai tempo, troppo impegnati a viverci, o semplicemente ad aspettare l’altro che tornava a casa dopo l’ennesima giornata di sfiancante lavoro. E a noi andava bene così, perché non c’è niente di meglio di aver qualcuno che la sera ti aspetti anche fino a tardi, sveglio sul divano a guardare le solite schifose sit-com che non piacciono a nessuno dei due, o che aspetti per addormentarsi solo te che arrivi, per poi sprofondare nel sonno col sorriso sulla faccia. Un sorriso stanco, ma mai annoiato dalla quotidianità dei gesti. Ed era un sorriso che a lei riusciva proprio bene. E che mai mi sarei aspettato di non vedere più. Il problema è che quando non ti aspetti qualcosa, e arriva o va via all’improvviso, che sia piacevole o deleterio, ti senti un’altra persona. Sei costretto a rompere gli equilibri quotidiani, perché sono cose da fare in due e una persona da sola non riesce a reggere il peso della rottura. Ed è così che mi ritrovai, nel bel mezzo di una vita perfetta, senza sicurezze, senza punti di riferimento, perché lei sola era il cardine su cui poggiavo tutto me stesso. “Torno presto”, aveva scritto, ma quel “presto” non seppi mai a quale ora o a quale giorno si riferisse, o peggio ancora, a quale vita. Mi ritrovai così. Spezzato. Distrutto. Con i polmoni a pezzi e la gola secca. Con le lacrime asciutte sulle guance, seduto in ginocchio su quel pavimento freddo. Ne accesi un’altra, poi un’altra e un’altra ancora, con l’intenzione di annientarmi, di farmi del male. Ma io stavo già male. E quando un corpo è al limite di rottura, anche se cerchi di fargli sempre più male, arriverà ad un punto in cui non sentirà più il dolore. Ed è così che stavo, ed è così che passavo il tempo. Malsano, sbagliato, deleterio. Necessario. Ero spezzato. Distrutto. I polmoni chiedevano pietà, gli occhi non ne potevano più. Io chiedevo aiuto. Non c’era nessuno. La casa era vuota. Quasi vuota quanto me in quel momento. L’amore. La sua mano nella mia. Il delirio. Il caos. La voglia di andar via ma l’impotenza di uscire da quella camera fredda tanto quanto la mia mano vuota. Ero solo. Non avevo nessuno. Li avevo mandati tutti via. Perché non li volevo, perché non erano lei. Ero semplicemente solo, spezzato, distrutto. Il tempo trascorreva incredibilmente lento, i minuti sembravano ore, le ore giorni. Mi trascinavo per le strade della città come un drogato in crisi d’astinenza, o un malato terminale, o più semplicemente un uomo morto. Occhi bassi, camminata lenta, attento a non incrociare gli occhi dei passanti, ‘che ci avrebbero letto il tormento nei miei. Perché proprio lì, nelle pupille, era scritto a caratteri cubitali che qualcuno mi mancava. Perché le persone che hanno subito un danno le riconosci per strada: camminano con le braccia distese lungo i fianchi, senza una meta, con gli occhi che fissano l’asfalto o che vagano solitari, cercando sempre qualcosa esaminando volti su volti, ma non trovandola mai. Le vedi camminare sul ciglio del marciapiede, mentre provano a ricomporre i pezzi della loro anima, andati persi chissà dove. Ed io vivevo così, alla giornata. Lavoro, amici premurosi, alcol, finire nelle braccia di qualche donna, pentirsene e maledirsi di esserci cascato l’ennesima volta, andarsene e lasciarla da sola, perché non me ne importava nulla. Io un’altra donna non l’avevo mai desiderata. Non ci avevo mai pensato a rifarmi una vita. Lo trovavo sbagliato, per me sarebbe stato equivalente ad un tradimento. Perché tutte quelle finte donne, che fossero traditrici dei loro ignari mariti, giovani in cerca di esperienze, donne single tutte d’un pezzo alla ricerca di scapoli e divorziati falliti tanto quanto loro, io non le volevo nemmeno guardare. E quando abbracciandomi, mi circondavano il viso con i capelli, io rischiavo di impazzire. Io oltre ai suoi capelli mori, non ne volevo altri intorno al viso, o sulle giacche, che erano rimasti lì, quelle volte in cui stavamo abbracciati per un tempo che sembrava l’eternità..
-Rebecca Proietti
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