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sabato 31 ottobre 2015

“Io, poeta maledetto.”

“Sono le 03:04.
Sono le 03:04 e si dice che la notte appartenga a chi ama follemente. 
Si dice che la notte sia una signora con un vestito di velluto che le ondeggia sui nivei piedi. 
Sono le 03:04 e fa freddo. 
Meno tanti gradi in questo mondo. 
Sono le 03:04 e non ci sei. 
Non ci sei più, da un po'. 
Non ricordo quanto. Tenevo il conto dei giorni quando ci mancavamo. 
Però da tanto. 
A me sembra tanto. 
'Che corre tutto troppo velocemente: la vita, le persone. Io no.
Ho smesso.
Ho smesso di correre da quando tu hai deciso di fermarti lì, in quelle braccia là, che non sono le mie. 
Ho smesso di correre da quando l'ultima sigaretta serve per prendere aria. 
Ho smesso di correre da quando guardo il cielo e somiglia sempre a te quando arrossisci. 
Smentivi ogni regola: le ragazze ancora lo sanno fare. 
'Che ti bastava uno sguardo per colorarti di rosa. 
Ho smesso di correre in libreria, per comprarti l'ultimo libro di un qualche poeta dannato per amore.
Ora li capisco. 
Mi sento come loro, dannato e perso. 
Io che li ho sempre denigrati.
Io sono diventato uno di loro. 
Ho smesso di correre dietro ai treni, da quando non ci sei più tu da inseguire affacciata ad un finestrino, mai lo stesso.
Un po' come te. 
Ho smesso di correre per le piogge d'agosto. 
Quelle a cui tu andavi incontro a braccia aperte e un sorriso bambino. 
Ho smesso di correre nei prati in fiore.
Tanto non avrebbe senso coglierne uno. 
Ho smesso di correre. 
Ho smesso e basta, come te.
Ho smesso quando tu hai detto: "è finita". 
Ho smesso anche di crederci, che fosse mai iniziata. 
Ho semplicemente smesso di sperare che tu possa tornare per dirmi: "Il caffè senza zucchero non è più dolce da quando non mi baci più." 
Ho smesso anche di cercarti, ho guardato in tutti gli angoli. 
Ho smesso di sentire le stesse canzoni, ho smesso di sentirci. 
Ho smesso. 
Hai smesso. 
E sono le 03:17, tu continui a non esserci.”


-MH.

Per sempre? O per un po'?

《Ti amerò anche dopo la morte》mi disse.
《Dopo la morte? Ma dopo la morte non c'é niente!》
《E io ti amo lo stesso》
《Prendi l'amore che mi daresti dopo la morte e dammelo subito. Così adesso ne ho di più.》
《Ma non è troppo poi?》
《Non è mai troppo l'amore》
《E allora che me ne frega se dopo la morte non c'è niente. Se non è mai troppo io ti amo pure da lì》
《Ma da lì dove?》
《Boh non lo so, ti amo dal niente. Ecco si dal niente, come se ci fosse sempre stato》
《Ma se siamo morti, a me l'amore non m'arriva》
《Ma quante storie che fai, pigliati st'amore e basta》
《Ma non è che ne trovi un'altra dopo la morte? Magari ha l'anima più bella della mia》
《Finiscila, tu hai l'anima più bella tra tutte》
《Sei sicuro?》
《Lo giuro sulla mia vita》
《Quindi dopo la morte non mi ami più?》
《Ma l'ho detto prima, si anche dopo la morte》
《Vabbe', facciamo che ci credo. Ma la serie A c'è  dopo la morte?》
《Spero di si, altrimenti uno che fa la domenica?》
《Mi ami, pure la domenica》
《Però se c'è me la fai vedere eh, non ci vengo per negozi con te》
《Tanto lo so che poi ci vieni.. mi ami vero?》
《Certo che ti amo》
《Per sempre? O per un po'?》
《Te lo dico l'ultima volta, anche dopo la morte》
《Non vedo l'ora di baciarti l'anima》

     
                            -R

venerdì 30 ottobre 2015

“Ti lascio”

“Certo che ci lasceremo. 
In realtà ci stiamo lasciando anche adesso. 
Dipende sempre cosa. 
Io ti lascio i miei giorni migliori. 
Ti lascio le mie corde preferite. Quelle che compro per far suonare al meglio la chitarra. 
Ti lascio il mio quadernino pieno dei sospiri che mi fai lanciare. 
Ti lascio una canzone da ascoltare prima di andare a dormire. 
Ti lascio il desiderio di chiedermi se domani ho voglia di un caffè. Offri tu. 
Ti lascio immaginare di fare l'amore con me. 
Ti lascio lettere senza bisogno di un mittente. Saresti sempre tu. 
Ti lascio i miei pensieri più profondi.  
Ti lascio i tramonti sul mare.
Ti lascio la voglia di andarsene in qualche posto nuovo. 
Ti lascio le attese sui muretti, con i berretti di lana e le sciarpe sui sentimenti. 
Ti lascio la voglia di prendermi in braccio a fine giornata. 
Ti lascio il mare delle 18:33.
'Che ha il colore dei tuoi occhi quando sorridi di cuore. 
Ti lascio la voglia di mollare quando sei quasi in cima alla vetta. 
Ti lascio il "ormai è fatta" quando ci arrivi. 
Ti lascio l'emozione di guardare il mondo sotto di te. 
Ti lascio la sensazione di essere speciale per qualcuno su questa terra. 
Ti lascio il giubbotto quando fuori fa freddo e hai solo una felpa. 
Ti lascio la voglia di sprofondare tra le mie braccia fatte apposta per te. 
Ti lascio tutto il mio amore. 
Ti lascio tutta la mia vita in mano, perché so che tu non la lascerai scivolare via. 
Perché tutto quello che perdo io, lo prendi tu. 
E sì, ci lasceremo. 
Ci lasceremo la voglia di appartenerci per sempre.”

-MH



Binario 3.

Mi aveva detto che sarebbe tornato, alle 11 in punto, binario 3. Così io ero corsa alla stazione, un po' in anticipo, forse anche troppo, con l'ansia di vedere il suo viso una volta scese le scalette del treno. Mi ero seduta su una di quelle panchine di fronte alla banchina, e leggevo un libro per ingannare l'attesa. Speravo che il treno arrivasse con qualche minuto d'anticipo, ma si sa a Roma non c'è nulla di puntuale, figuriamoci in anticipo. Cosi i minuti passavano, ed io ero contenta che passassero alcuni più lenti e alcuni più in fretta, perché potevo godermi ogni istante di quell'attesa agitata che di lì a poco mi avrebbe fatto ritrovare quegli occhi blu. E poi sentìì da lontano quel fischio tanto desiderato, il cuore mi batteva forte, il treno stava arrivando, lo potevo vedere mentre iniziava a frenare per fermarsi di fronte a me, alle 11.07, binario 3. Il treno arrestò la sua corsa, le porte si aprirono e io balzai in piedi. I primi passeggeri iniziarono a scendere, decine di rotelle iniziarono a girare sul pavimento sporco e loro, stanchi del viaggio, erano felici di trovare un amore, un amico,una madre ad attenderli. Occhi negli occhi, mani strette, abbracci, 'te la porto io la valigia amore, sarai stanca' , tutti verso l'uscita, verso casa. Ed io ancora aspettavo, guardavo tutti i volti che passavano, riguardavo quelli che già erano passati, pensando che no, non era ancora sceso dal treno, no non potevo averlo perso, e sì l'avrei riconosciuto anche al buio. Ma i passeggeri erano terminati, non scendeva più nessuno, forse avevo sbagliato treno, ma no era quello giusto, alle 11, binario 3. Chiesi informazioni, no non mi ero sbagliata, e sì signorina, i passeggeri sono terminati non c'è più nessuno sul treno. Lui non era tornato. Non era mai salito su quel treno. E il mio cuore rimase fermo lì al binario 3, fermo, ormai al capolinea.

                                 -R

giovedì 29 ottobre 2015

" Non fermarti "

Camminava per le strade della città deserta, mentre il vento accartocciava le foglie e le faceva volare lontano. Un passo dopo l'altro ripensava ai tempi in cui era con lei, 'che in una giornata del genere lei avrebbe fatto uscire il sole con quel sorriso. E forse era solo un'impressione, forse il sole c'era davvero ed era lui che non lo vedeva, perché quando ti manca lei, è tutto buio, è tutto spento, freddo, e ti senti accartocciato come le foglie, pure se fuori c'è il sole. Però lui no, oggi non lo vedeva, non lo vedeva il sole. Continuava a camminare senza sapere bene dove andare, senza smettere di sentire quel dolore al petto, il dolore di quando ti manca qualcuno, ti manca lei, e allora stai male, davvero male ma continui comunque a camminare, perché se ti fermi è la fine, se ti fermi è la volta buona che quel numero lo componi, quella sua strada la percorri, quei girasoli li compri, è la volta buona che finisci per fare tutto quello che non hai fatto, le cose giuste; se ti fermi a pensare poi ti tremano le gambe e cadi a terra e poi chi ti aiuta a tornare a galla, lei non c'è, non ti vuole piu o forse non ti ha mai voluto, magari si ti voleva ma non abbastanza. Continuava a camminare, a mettere un piede davanti all'altro, a respirare lentamente, poi iniziò a correre, a correre via anche se sapeva già da sé che le mancanze son sempre dietro l'angolo.

                                      -R

mercoledì 28 ottobre 2015

“Storie da caffè”

“17:20.
Lui era uno stronzo.
Lei non capiva che lo aveva reso tale. 
Era una delle tante storie che sentivo al bar. 
Sembrava fatto apposta: ogni giorno c'era qualcuno disposto a sputarsi addosso. 
Erano disposti a perdere tutto per delle frivolezze. 
Si mandavano a quel paese per appuntamenti mancati, per regali non ricevuti, per complimenti non fatti. 
Lui alzava la voce.
Lei cominciava a piangere dicendo che non meritava niente di tutto questo. 
Io bevevo caffè. 
Io bevo ogni giorno caffè. 
L'unica compagnia sincera disposta a osservare ogni giorno storie in cui cambiano solo i nomi, non le situazioni. 
E me lo chiedevo. 
Mi chiedevo fino a che punto fossero disposti a farsi male. 
Fino a che punto la superficialità potesse renderli così stupidi. 
Mi sentivo fuori luogo. 
E glielo avrei detto. 
Gli avrei detto che invece che prendersela perché lei era uscita col suo migliore amico per una birra, avrebbe potuto chiederle come fosse stato. 
E a lei avrei detto quanto un regalo fosse indice di amore. 
Le avrei chiesto se 24 carati fosse abbastanza. 
Li vedevo così distanti da me.
Li vedevo persi in una realtà apparente e non sostanziale.
Io litigavo per altro. 
Io discutevo per le sensazioni che mi lasciavano addosso certe frasi. 
Io non regalavo diamanti. 
Io regalavo i sorrisi sinceri. 
Io la facevo sentire speciale.
E lei se n'era comunque andata. 
Allora mi fermavo. Guardavo tutte queste coppie che si demolivano. 
Le guardavo e non riuscivo a capirne il meccanismo. 
Se avessi litigato per così poco, lei sarebbe rimasta? 
Non capivo. 
Avevo visto amori rompersi. 
Amori riprendersi.
Avevo visto persone rinfacciarsi anche i caffè offerti.
Avevo visto mani volare. 
Le avevo lette tutte quelle storie e non erano niente di entusiasmante. 
La soluzione era così semplice, bastava capire che cosa si volesse davvero.
Eravamo sempre io e il mio caffè. 
E le storie sempre le stesse.”

-MH.



lunedì 26 ottobre 2015

Sei libero o solo?

"E quando sei solo, in un mare di gente. 
E quando sei solo, libero di 
fare ciò che vuoi. 
E quando sei solo, distaccato da qualsiasi responsabilità. 
E quando sei solo, a fare i conti con gli scheletri nell'armadio. 
E quando sei solo, tu e una tazzina di caffè. 
E quando sei solo, senza una bocca da baciare ad ogni rientro. 
E quando sei solo, senza una testa da ospitare sul petto. 
E quando sei solo, senza un mittente a cui scrivere. 
Senza occhi in cui perderti. 
E quando sei solo, senza mani da stringere. 
Senza fianchi da accarezzare. 
Senza un motivo. 
E quando sei solo, in ogni stazione. 
E quando sei solo, al buio della tua esistenza. 
E quando sei solo, negli angoli della stanza. 
E quando sei solo, in una vita troppo stretta. 
E quando sei solo, incastrato in un ricordo. 
E quando sei solo, senza nessuno da svegliare la domenica mattina. 
Senza cornetti da portare.
Senza stelle cadenti a cui affidarti. 
E quando sei solo, tu da solo. 
E quando sei solo, come la chiami? “Libertà o solitudine” "

-MH

Fino all'ultimo gradino

"Roma.
Piazza di Spagna in un giorno uguale a tutti gli altri.
Turisti giapponesi con le loro Nikon tra le mani.
Bottiglie di birra vuote della sera prima agli angoli degli scalini.
Schegge di vetro, qualcuno si era divertito troppo, forse.
Il sole alto nel cielo.
E poi, in cima alla scala, una visione.
Capelli lunghi e mori, gli occhi non riusciva a vederli da quella distanza, ma era sicuro del fatto che,  una volta tolti quei grandi occhiali da sole, sarebbero stati meravigliosi. Li immaginava di un verde molto acceso.
Una mano dalle dita affusolate teneva fermo sulla testa un cappello di paglia, nonostante il vento volesse imperterrito farlo volare via.
Con passi delicati scendeva un gradino dopo l'altro, mentre lui la guardava e pensava che creatura più bella, no, non fosse mai stata creata.
Forse da una dea, una Venere dipinta, una ninfa del mare, una sagoma che anche il Bernini avrebbe fatto fatica a scolpire con le sue mani.
Un vestito blu, forse di seta, le fasciava il corpo come un guanto. 
Più lei si avvicinava, più lui ne scopriva i dettagli, e più aveva desiderio di saperne di nuovi.
Perle alle orecchie e sul collo.
Scarpe troppo alte per scendere quei gradini, ma che lei calzava con una fluidità straordinaria.
Non un passo falso, non un attimo di cedimento. Continuava la sua discesa ignara della sua bellezza, ignara di quegli occhi che non si erano allontanati da lei nemmeno per un istante.
Le labbra piene, piene di un sorriso non diretto a qualcuno in particolare, si muovevano silenziose, canticchiava probabilmente.
Era bella.
Ma non di quel genere che fa girare le teste degli uomini al suo passaggio.
Di quel genere che sbarra gli occhi, fa tremare le gambe, intimorisce, disarma.
E lei, persa in chissà quale pensiero, continuava a scendere quei gradini, un passo dopo l'altro.
Arrivata alla fine della scala, lui capì di amarla già."

                                                             -MH


sabato 24 ottobre 2015

“L'amai, non per un attimo.”

“Questione di un attimo e lei riuscì a svestirmi di ogni paranoia.
Parlava piano, sentivo il suo respiro carezzarmi il collo. 
Era tremendamente delicata e ciò la rendeva affascinante, irraggiungibile. Quanto di più desiderabile su questo pianeta, così piccolo in confronto. 
Questione di un attimo, pochi secondi e sentii i suoi occhi seguire ogni linea del mio corpo. 
Sembrava un balletto. 
Sembrava qualcosa scritto da Čajkovskij, quando l'inverno mordeva poco e la neve si posava soffice sulle strade. 
Questione di un momento, forse due se si pensa all'intensità, e ebbi la sensazione di averla addosso, di stringerla mentre mi sussurrava all'orecchio parole dolci, parole d'amore, parole che piano piano andarono a fondersi con noi. 
Non si capiva. 
Non capivo dove iniziassi io e dove finisse lei, ma andava bene così. 
Questione di un attimo, fugace e frastornante e seppi che io e lei l'amore l'avevamo fatto da tempo. 
Una sorta di memoria recondita. 
Un ricordo da far riemergere con la stessa dolcezza con cui mi diceva che niente al mondo ci avrebbe separate. 
Fuori andava avanti qualcosa che chiamiamo vita, e a me non importava. Io dentro, di me, di noi, la stavo facendo rinascere questa fottuta vita. 
Questione di un attimo, senza bisogno di toccarsi, di sentirsi urlare dal piacere. 
Questione di un fottuto attimo e capii che non sono i grandi eventi quelli da tenere a mente, ma quelli che in qualche modo ti cambiano la vita. 
Lei era così, mi sorprendeva sempre. 
Lei in un attimo aveva fatto di me la persona che amava. 
Lei era riuscita a far l'amore senza toccarmi, semplicemente c'era. 
Questione di un attimo e io non seppi più come fare a liberarmi dall'incessante bisogno di sentirla mia. 
E l'amai, non più per un attimo, ma per tutta un'esistenza.”


-MH.

Sii felice

"Sii felice.
Apri la finestra e fai entrare il sole.
Compra un libro.
Ammira il Colosseo come fosse la prima volta.
Lascia che il vento ti spettini i capelli.
Mangia un gelato, anche se fa freddo.
Corri in un prato a piedi nudi.
Accarezzale il viso.
Sii felice.
Prendi il treno sbagliato.
Disegna un fiore sul tuo diario.
Fa' un tatuaggio di cui poi da grande ti vergognerai.
Non guardare ciò che appartiene al passato.
Conserva il potere di lasciarti meravigliare.
Chiamala.
Va' al mare di notte.
Sii felice.
Grida sotto la curva per la tua squadra del cuore.
Parla di lei con gli amici.
Credi in te stesso.
Perditi in una città estera.
Va' a una festa in maschera.
Va' da lei.
Sii felice e va' da lei.
'Che tanto le due cose coincidono."

                                  -R

venerdì 23 ottobre 2015

Una mattina d'ottobre

Si erano salutati una mattina d'ottobre che pioveva forte in stazione, S'erano guardati fissi negl'occhi, blu i suoi, verdi di lei, per un tempo che era parso loro infinito e che servì a scavare nell'anima dell'altro un'ultima volta.
Si erano salutati una mattina d'ottobre che faceva anche più freddo, forse era colpa di lui che partiva, il freddo, forse era colpa di lei che restava, o forse era solo colpa di quella stagione. S'erano baciati con lo sguardo tutto il tempo, tenendosi solo le mani le une dentro le altre, strette, come se quel tempo davvero si fosse fermato, come se quel treno verde scolorito non avesse dovuto mai lasciare quei binari.
Si erano salutati una mattina d'ottobre quando non c'era più niente da dire o da fare, da pensare, da ottenere e da sperare, ma quando c'era ancora tanto da amare e loro lo sapevano, lo sapevano bene che c'era tanto da amare, ma no non si poteva più, o forse si ma non lo si voleva abbastanza, o forse nessuna delle due cose, forse semplicemente era destino che tutto scomparisse ma che allo stesso tempo rimanesse però come un puntino all'orizzonte, un monito di cio che erano stati.
S'erano salutati una mattina d'ottobre mentre gli occhi si respiravano e le bocche piangevano, mentre le mani stringevano il cuore dell'altro. Poi si staccarono, di colpo, e lui salì su quel treno. La pioggia era diventata una tormenta interiore, un tormento per il cuore la partenza. Il treno si allontanava. Le mani bruciavano già di mancanza e quella mattina d'ottobre ormai sapeva di una mattina qualunque.

                                     -R

“Io ero pittore, lei la mia tela”

“Si parlava di arte.
E io pensai: "Parliamo pure di arte. Io l'ho vista. Io l'ho vista nuda".
Ed era vero. 
Io avevo disegnato sul suo corpo quadri mai visti, semplicemente sfiorandola.
Io l'avevo vista spostarsi i capelli con le mani e alzare lo sguardo. 
E lì era la fine. 
Quando ti guardava, lei non lasciava spazio alle parole. Riusciva a spogliarti di ogni paura, di ogni timore. 
Ti sussurrava piano che tu, in un qualche modo, la rendevi felice.
Io l'avevo vista l'arte. 
Nei suoi movimenti lievi, mai in disaccordo con l'ambiente. 
Nel suo modo di ridere, tremendamente sguaiato. Ma la vedevi ed era arte. 
Lei era arte, per come inarcava la schiena quando si stendeva sul mio petto. 
Lei era arte per il modo che aveva di guardare il mondo. 
Lei era la mia arte, quella preferita. Quella che compreresti libri e libri, pur di avere tutto. Anche le virgole. 
E di lei mi sarei presa anche quei punti interrogativi che non riusciva a togliersi di dosso. 
Ma lei era arte e cosa ti aspetti se non confusione, bellezza e senso di inadeguatezza?
Era un'anima inquieta in cerca di amore. 
Io ero pittore e lei la mia tela. 
Lei era arte, ma di lei non potevo parlare. 
Non avrebbero capito.”

-MH.

giovedì 22 ottobre 2015

Le ultime parole di Ettore ad Andromaca

“Cara Andromaca,
Questa è l'ultima volta che potrò scriverti. 
Questa lettera, forse, conterrà tutto ciò che rimarrà di me, ma anche di noi. 
Ci sono cose che non ti ho mai detto, un po' perché ad un uomo non è concesso, un po' perché ho sempre voluto proteggerti da questa mia debolezza. 
Per un momento togliti dalla testa l'immagine di 'Ettore, re dei Teucri' e riprendi alla memoria quel ragazzo che conobbi in tenera età. 
Ti ho amata tanto Andromaca. 
Ho amato le tue candide mani che si son sempre prese cura di me.
Ho amato i tuoi silenziosi sorrisi che mi accoglievano ad ogni rientro. 
Ho amato la tua incessante fanciullezza che si intrecciava con la tua elegante figura di donna, madre. 
Tu sei stata più di una moglie. 
Sei stata compagna, amica, spalla.
Anche se non te ne ho mai dato credito. 
Sei stata il motivo di ogni mia giornata, passata in guerra, lontano. 
Sei stata l'ultimo sguardo lanciato ogni sera a Selene, chiedendole di proteggerti in mia assenza.
Sarai l'ultimo pensiero che mi accompagnerà quando mi troverò di fronte a Proserpina. 
Amore mio, astro del mio cuore, inesorabile desiderio, non piangere per la mia caduta. 
Ricordati di me, come l'uomo che hai amato e che tanto ti ha amata. 
Ricordami nei gesti che condurrai, ricordami nelle accortezze che riserverai ad Astianatte.
Ricordami nel pieno di una giornata estiva, e nella desolazione di un mordace inverno. 
Andromaca cara, che di me hai preso ogni cosa, permettimi di morire sapendo che tu sei fiera di me. 
Permettimi di morire senza la paura di averti delusa. 
Permettimi di vederti al mio capezzale, pur essendo morto. 
Anche agli inferi, se gli dei riterranno, ti porgerò un pensiero fugace. 
Anche lì giacerai nelle mie memorie. 
Ti amo ancora adesso Andromaca, ti amo pur non vedendoti. 
Già so che mai più ti rivedrò, ma ti amo come se domani già potessi riabbracciarti. 
Ultimi baci non te ne ho mai dati, nemmeno sta volta. Sebbene entrambi sappiamo che non ce ne saranno altri. 
Il bacio più grande che un uomo possa darti, lo tieni in braccio e lo serbi nel cuore. 
Non ti dimenticare di noi.
Veglierò su di te, amore mio. 
Candide labbra e soave delizia della mia vita.”

Ettore.

mercoledì 21 ottobre 2015

Antica guerra o società moderna?



“..Si affacciò alla finestra e si perse nel tramonto. Le nuvole sembravano tagliare il cielo come soldati sul campo di battaglia. Opliti coraggiosi, comandanti codardi, e sovrani ancor meno interessati al destino dei loro eserciti. In lontananza due roccaforti e due montagne. Cavalli imbizzarriti calpestavano le ossa e le anime di coloro che erano già morti invano, mentre i più giovani vedeva cadere tra le prime file, giovani che non avrebbero più sentito il calore dell’abbraccio di una madre. Si battevano tra il clamore di frecce, spade e lance, tra grida di incitamento e urla di dolore straziante. Vedeva gli uomini lottare e mordersi come bestie, quando ormai le loro spade erano cadute tra il fango e il sangue, quando le ultime forze stavano venendo meno e si tirava avanti quella sciocca guerra sol per il desiderio di tornare a casa presto e vivi. E lì, più alta di tutte, una stella luminosa, forse un occhio di qualche dio che guardava in basso, monitorando ma non intervenendo nel destino di quegli umani che, sciocchi, si trucidavano a vicenda non consapevoli di essere uguali gli uni con gli altri, lottando per la sete di potere di infimi comandanti, che non si curavano di perdere uno o duemila di loro. Una battaglia senza fine che tagliava le nuvole come i pugnali tagliavano la carne, come le urla straziavano il cielo. E alla fine il vento e poi la pioggia, a portar via l’odore dei morti, a purificare la terra dal sangue, dal vomito di coloro che avevano alzato la testa sulla realtà di ciò che stava accadendo, e che non avevano potuto far altro, appena visto gorgogliare il primo fiotto di sangue dal primo uomo da loro ucciso, che girarsi in un angolo a vomitare acido e disperazione, ma anche rassegnazione per un mono che andava avanti per il volere di uomini assetati di sangue e gloria, ma che avevano incubi la notte colmi dei volti e dei lamenti di tutte le donne e i bambini che avevano massacrato tra le fiamme dei villaggi invasi. Un mondo che non avrebbe mai trovato pace, fino a che le spade non avrebbero cessato di tagliare teste. Un mondo che aveva bisogno di essere purificato dal male, e che non trovava nei suoi abitanti la forza di ribellarsi ai capi che guidavano gli uomini come burattini assassini sulla scena di un macabro teatro.”

                                                                    -R

martedì 20 ottobre 2015

“Che la tua libertà non è la tua solitudine. ”

“Corri. 
Valla a prendere, dille che non basta.
Che non basta esistere, serve vivere. 
Arriva senza fiato, incazzato, disperato. 
Corri ragazzo. 
Strappa un fiore, il primo che cogli. Sarà comunque il più bello. 
'Che la bellezza di un fiore sta nel fine di esso. 
Arriva un attimo prima che esca. 
Prendila per i fianchi, dille che non funzioni più. 
Che la tua libertà non è la tua solitudine. 
Corri ragazzo. 
Sentiti bambino, mostra le tue debolezze. 
Guardala negli occhi, guardala a lungo. 
Soffermati sul suo collo. 
Su come si appoggia la sciarpa su esso. 
Segui la linea dei fianchi, accarezzala con lo sguardo. 
Sentiti nudo, spogliala lentamente. 
Corri ragazzo che l'orgoglio non è forza. 
Corri e dille che l'ami. 
Che non vuoi perderla perché significherebbe perdere. 
Corri ragazzo che il tempo passa e lei no. 
Diglielo ragazzo. 
Corri che potesse essere l'ultima volta. 
Corri che hai bisogno di ricominciare. 
Corri e non pentirti, non per lei. 
Corri e riprenditela ragazzo, dammi retta. 
Corri e non essere vigliacco. 
Sii uomo. 
Il suo uomo.”


-S.

lunedì 19 ottobre 2015

Ultime volte

L'ultima volta, ricordo aveva la sigaretta in bocca mentre sussurrava piano.
"Ci vediamo presto."
Quella frase scivolò via come il fumo.
Si lasciò andare in un turbinio di correnti e venne portata altrove.
L'ultima volta, in quel pomeriggio lieve, pianse con me dicendo di non volermi perdere.
E poi successe qualcosa. Si persero le lacrime sul fazzoletto e ci perdemmo anche noi.
L'ultima volta, quando mi baciò, mi spogliò l'anima da ogni tormento.
L'ultima volta che l'ho guardata sentivo corrermi addosso gli stessi brividi della prima.
L'ultima volta, quando l'ho salutata, pioveva.
Pioveva forte fuori.
Pioveva forte dentro.
Sono così strane le 'ultime volte'.
Si vestono di una così bella e soave nostalgia, una melanconica melodia.
Un ricordo, talvolta lieve, talvolta rumoroso.
Così differenti dalle prime.
Piene di imbarazzo e innocente curiosità.
Le prime volte portano un desiderio.
Le ultime, lo eliminano.
L'ultima volta, proprio quel giorno, mai avrei immaginato di amarti. E la prima volta, in quel mese là, mai avrei creduto che avrei fatto dopo i conti con la paura di perderti.
E dopo la tua ultima volta, io rivolevo la prima.
E tu non c'eri.

                            -MH

domenica 18 ottobre 2015

Sarà la domenica, forse

Son strane quelle giornate così, quelle in cui ti alzi e c'è il grigio in cielo, il vento che spettina gl'alberi e fa rotolare le prime foglie secche per strada. Quando ti svegli e non sai il perché, ma il letto è più freddo del solito, il pigiama un po' più scomodo e il risveglio un po' più stanco. 'Che non sai se il grigio sta fuori o ce l'hai dentro.
Però forse non è poi cosi, forse è la malinconia della domenica, di questo giorno diverso, di riposo per molti ma non per tutti, di passeggiate sulla riva del lago o in un centro commerciale, perché quella maglia a colori gli sta di certo a pennello e io gliela vorrei comprare. Però non posso, non potrei dargliela, in effetti no, non lo vedo più. Quel paio di scarpe starebbero bene a me quindi si, allora compro queste, mi faccio un regalo perché in fondo la domenica è bello comprare regali, è quasi un giorno di festa. 'Che però spesso non la passi con chi vuoi, no, allora diventa un giorno come un altro, un giorno spento e allora arriva il grigio fuori e dentro, e poi quand'è cosi come la colori la stanza, il cielo, te stessa, tutto intorno. Come glielo dici agli altri che il grigio non ti piace, che vuoi l'arcobaleno ma tanto loro non ti sentono. Come glielo dici che tu la maglia gliela compreresti pure però vorresti anche quel paio di scarpe, ed è un casino quando sei indeciso tra due felicità, la tua o la sua, 'che tanto lo sai dall'inizio che sceglieresti sempre, sempre la sua perché così si accende anche la tua, di felicità. Ma sì, sarà la malinconia di questa domenica, sarà che fa più freddo ora, sarà che non c'è niente da fare,sarà che anche tra la folla del centro commerciale manca una mano da stringere forte.

                                 -Rebecca

sabato 17 ottobre 2015

Chissà

«Chissà se mi accetterai con tutte le mie paranoie. Chissà se ti farò impazzire anche con i capelli colorati o con i dilatatori alle orecchie. Chissà se per te sarò sempre la ragazza raffinata con lo sguardo altezzoso. Chissà se al mattino mi penserai e ti spunterà il sorriso ricordando qualche parola strana che ho detto o qualche pensiero contorto di cui ti ho reso partecipe. Chissà se ti andrà bene stare con me quando sono triste e non dico una parola. Chissà se sarai felice quando ti chiederò di andare in montagna a camminare per ore e ore solo per vedere una stella alpina o un tramonto. Chissà se i miei film ti piaceranno e avrai le mie stesse sensazioni. Chissà se accetterai una ragazza diversa dalle altre che ama giocare,ascoltare la musica sdraiata a testa in giù sul lettone,andare a fare shopping comprando solo in determinati negozi. Chissà se il mio naso che si arriccia o le mie mani in continuo movimento ti faranno ridere o le considererai da ragazzina. Chissà se ti piacerà leggere le poesie mentre stiamo su un prato. Chissà se ti andrà bene tenermi per mano. Chissà se mi abbraccerai quando sto male o quando mi sento terribilmente sola. Chissà se mi capirai al massimo e mi apprezzerai a dovere. Chissà se ti andrò bene così. Se amerai più i miei difetti dei pregi. Se la notte li passerai in rassegna e ti sopraggiungerà un'immagine di noi ogni volta che chiudi gli occhi. Chissà se mi sognerai. Chissà se sognerai un futuro insieme a noi,con dei figli,un cane e magari qualche giornata al mare o in montagna. Chissà se trangugerai le mie lasagne poco cotte o le mie verdure senza sale. Chissà se mi porterai al cinema o a cena fuori e non farai altro che dirmi che mangio poco e sono troppo magra. Chissà se mi prenderai in braccio e mi farai il solletico dopo avermi buttato sul letto. Chissà se mi farai giocare alla play tra le tue gambe e mi farai vincere apposta solo per vedermi urlare di gioia. Chissà se mi abbraccerai fino a farmi un pochino male. Mi abbraccerai così forte solo per farmi entrare un secondo dentro di te. Per farmi sentire amata. Per farmi capire che come me non c'è nessuno. Che ti basto così.  Che non mi cambieresti mai. Chissà se mi amerai come faccio io. Tutti i giorni. Tutto il giorno.»

                                 -Silvia

venerdì 16 ottobre 2015

NIENTE DI MEGLIO AL MONDO.



Una mano le accarezzava la pelle diafana, soffermandosi sulle vene bluastre che si intravedevano sul collo, che sembrava quasi trasparente, illuminato dalla luce chiara dei primi raggi del sole. Respirava a stento mentre quelle dita silenziose la sfioravano quasi fosse fragile come un vaso di porcellana, di vetro. Occhi blu oceano la guardavano fissi, li sentiva anche da sotto le palpebre chiuse, gli stessi occhi che aveva visto nei suoi incubi peggiori.  Il vento entrava dalla finestra insolitamente caldo rispetto al clima di quel febbraio. E il freddo lei lo sentiva soltanto dentro. Attenta ad ogni minimo movimento dell’altro che le giaceva a fianco, provava a fingere una normalità che non le apparteneva più.  Con le sue piccole dita dalle unghie mangiate, cercava anche lei la pelle di lui, con gesti misurati, controllati, abituata ormai da un tempo che non ricordava più a stare attenta ad ogni singolo movimento che faceva, ad ogni respiro un po’ più lungo che prendeva, a trattenere le parole  e le emozioni, le grida. C’era stato un tempo in cui tutto questo ad Eveline sarebbe sembrato assurdo, anche soltanto da pensare, un tempo in cui le parole erano sussurri, e gli schiaffi erano carezze. Un tempo passato oramai da molto, che non sarebbe tornato mai. Lui si alzò dal letto soddisfatto, si vestì ed uscì di casa. Piangeva Eveline, quasi come una bambina, e malediceva se stessa e il giorno in cui gli aveva detto sì.  Se avesse potuto, lei lo avrebbe fatto.  Sì, lo avrebbe mandato via.  Eppure, ogni volta, c’era qualcosa che la bloccava, qualcosa che le faceva sperare che tutto poi sarebbe andato bene, non oggi, non domani, ma sarebbe andato bene.  E’ che lei , quando era accanto a lui era convinta di essere felice. Quando lui la guardava negli occhi, lei si sentiva bella. E quelle poche volte in cui lui le scostava i capelli dal viso, lei si sentiva amata. Per questo non l’avrebbe mai mandato via. Perché una donna, quando ama e si sente amata, è capace di darti il mondo. Ma lui quel mondo non lo voleva. A lui non interessava quello che lei avrebbe potuto dargli. E lei, con il mondo in tasca, se lo faceva andare bene, perché lei l’amava. Sperava, quando lui la lasciava sola tra le lenzuola, che un giorno si sarebbero svegliati lì insieme e felici, o che perlomeno lui accennasse un po’ di quell’amore che lei non vedeva da tempo. Che avrebbe voluto vedere. Ma lei lo amava, e anche se avesse voluto, non l’avrebbe mai mandato via.               In cucina, si chinò a raccogliere le schegge dei piatti ancora sul pavimento, rotti  come la sua anima, come la sua vita, come lei. Una maglietta a collo alto, con le maniche lunghe, copriva i lividi più vecchi, ma per quello sotto lo zigomo non c’era veramente niente da fare, neanche gli occhiali lo coprivano. Aprì la porta dell’ufficio ed entrò. “Ev, che è successo?” Una voce spaventata, un paio d’occhi agitati, Francesca. Più vecchia di lei lavorava lì da vent’anni, tutti i giorni, festività comprese, per mantenere la famiglia: un padre invalido, un marito disoccupato, e una figlia non ancora maggiorenne. La guardò, sorrise: “Ho sbattuto contro la porta, non è niente.”  Ma niente è quando una porta è davvero una porta, non la mano di tuo marito che abusa di te. Niente è quando tuo marito torna a casa e ti accarezza, e ti prepara la cena anche se è più stanco di te. Niente è dire ciò che pensi, vestirti come piace a te, non aver paura di essere seguita di giorno, né violentata di notte. Quindi questo era qualcosa, qualcosa di cattivo, ma Eveline continuava a stare zitta, a lasciarsi maltrattare giorno dopo giorno, convinta delle volte che fosse davvero colpa sua, se suo marito beveva, se non riuscivano ad avere figli, se la sua vita era uno schifo, se lui la amava e la odiava, la accarezzava e la picchiava. E tutto questo non era vero, ed Eveline lo sapeva. Finito il lavoro, tornò a casa e preparò la cena. Non sapeva a che ora sarebbe tornato, ma non era il caso di non fargli trovare niente da mangiare. Lo scatto della porta la fece sobbalzare, e sentì i suoi passi in corridoio. Non la guardò neanche in faccia, ubriaco già alle otto di sera. “La pasta è cruda.” Uno schiaffo. “La gonna è troppo corta.” Un altro schiaffo. Eveline cadde a terra. Gridava. Con gli occhi iniettati di sangue si era accanito su di lei come un pazzo, cercando vani pretesti per picchiarla, e picchiandola più forte se non ne trovava nessuno. Eveline piangeva. La guardava con disprezzo, la insultava. Lei corse in camera da letto, chiuse la porta, la chiave non c’era, voleva morire. C’era silenzio adesso, forse aveva deciso di lasciarla perdere, quel mostro. Rimase in un angolo della stanza per un tempo che parve lunghissimo e il suo cuore perse qualche battito quando udì il rumore di passi che si avvicinavano sempre di più. Sembrava la scena di un film dell’orrore, ma era tutto vero. Spalancò la porta con un calcio e una luce omicida gli accendeva gli occhi. La paura diede ad Eveline la macabra possibilità di stampare nella mente ogni dettaglio di quella sera. Così lo vide, in piedi con le gambe divaricate, di fronte a lei, i pugni chiusi, il petto che si alzava ed abbassava tranquillo. Di nuovo si accanì su di lei, la prese a calci mentre era seduta, la fece alzare le strappò i vestiti di dosso, la violentò una, due, tre volte. Eveline pregava solo che la terra si spalancasse da un momento all’altro, che inghiottisse lui, oppure lei, che accadesse qualsiasi cosa che avrebbe messo fine a quella tortura. Non aveva la forza di piangere, il sangue che colava dal naso, macchiava il lenzuolo bianco, e lui non smise per metà della notte. A lavoro finito, se ne andò sul divano e si addormentò nel giro di pochi minuti. Eveline non riusciva a respirare, i singhiozzi le spezzavano il fiato, il corpo era completamente indolenzito e il suo cervello faticava a contenere tutto quel dolore. Non capiva , quella povera donna, non capiva cosa lo avesse fatto impazzire così tanto, perché quella volta le avesse fatto così tanto del male. “Forse aveva bevuto troppo, forse davvero la mia gonna era troppo corta, di sicuro era una giornata no e io non ho fatto altro che peggiorare la situazione. So che non voleva farlo, se sta ancora con me vuol dire che mi ama.” A questo pensava Eveline il giorno dopo, mentre rimetteva i soprammobili al loro posto e mentre guardava nel lungo specchio dietro la porta del bagno un riflesso che non sembrava più il suo. Il viso gonfio, il corpo graffiato e livido, le labbra spaccate, unite a lacrime che bruciavano come il sale sulle ferite ancora aperte. Come avrebbe fatto ad uscire di casa in quelle condizioni? Cosa avrebbe pensato la gente? Si preoccupava del giudizio degli altri, non del fatto che suo marito l’avesse quasi uccisa la notte precedente.  “Ev, non credo tu abbia sbattuto contro una porta stavolta. Chi è stato, di nuovo tuo marito?” Non alzava gli occhi dal modulo che stava riempiendo, Eveline, non ci riusciva davvero. Francesca le prese il mento, vide i suoi occhi lucidi, ci lesse il terrore dentro. “Ev, tesoro, perché non ne hai mai parlato con nessuno? Possiamo darti una mano tutti quanti, vieni a stare da me per un po’ di tempo, c’è posto anche per te, vedrai che andrà meglio piano piano. Quando usciamo andiamo in caserma, tanto sta qui vicino e..” “No.” “Va bene allora rimarrai a casa tua, ma questa cosa dobbiamo denunciarla Ev.” “Mi dispiace ma no non verrò da te e no non denuncerò mio marito. Io lo amo, non farei mai una cosa del genere.”   Lo amava Eveline, ma non capiva che giorno dopo giorno questo immotivato amore poteva portarla alla morte. Lui sparì, e tornò una settimana dopo, senza darle nessuna giustificazione, senza  nessuna parola di scusa per averle fatto del male, sia dentro che fuori, sembrava quasi che si fosse dimenticato della bestia che era stato giorni prima. Un’altra settimana era trascorsa tranquilla, lui non l’aveva sfiorata, non era entrato di notte in camera sua, avevano vissuto nella stessa casa voltando lo sguardo dalla parte opposta, senza parlare, lei attenta a non disturbarlo nemmeno col respiro, lui comportandosi come se lei non esistesse nemmeno. Tutto sembrava procedere silenzioso e tranquillo, fino ad una sera. Pioveva forte, ed Eveline rimase bloccata a lungo nel traffico, tardando per la cena. Entrò a casa. “Con chi eri? Perché hai fatto tardi così tardi? La cena non è pronta.” “Amore, giuro non ero con nessuno, sono rimasta imbottigliata nel traffico per la pioggia. Adesso ti preparo subito qualcosa, scusami, scusami.” Si infuriò ancora di più. Iniziò a lanciare gli oggetti, gridando di aver sposato una nullità, una donna che non poteva definirsi tale, e una quantità di insulti che Eveline avrebbe poi avuto imbarazzo e difficoltà a raccontare. Specchi rotti, quadri storti, sedie rovesciate e bicchieri scheggiati. Una mano sulla gola di Eveline, che stringeva forte. Sentiva il respiro mancarle, il freddo di quella mano stonava con il rossore sulla faccia della donna. Stava per morire, lo sentiva. Le dispiaceva, ma almeno avrebbe smesso di soffrire a quel modo. La scaraventò a terra facendole sbattere quasi la testa, abusò di lei, che aveva nel frattempo iniziato a sanguinare, la prese a pugni, forte, con tutta l’intenzione e la voglia di ammazzarla di botte. Perché era uno schifo d’uomo, un fallito, non sapeva amare sua moglie, anzi non l’amava proprio. Era una bestia, una vergogna per la madre che l’aveva generato e per il padre che lo aveva da sempre amato, un rifiuto della società, un inetto, un meschino, putrido, maledetto  insetto, figlio di un dio che non poteva far altro che ripudiarlo e lasciarlo marcire nella sua stessa crudeltà. E meritava di subire quella stessa sofferenza che Eveline aveva provato per anni. E così lei, con tutta la forza di cui fu capace, prese la bottiglia di vetro che era rimasta sul tavolo e gliela spaccò sulla testa. Ubriaco marcio, accusò il colpo e per un attimo smise di torturarla, attimo di cui lei approfittò per scappare via sotto la pioggia, con i vestiti laceri, i piedi scalzi, il sangue che colava dalle ferite.  Corse fino a sentire i polmoni che bruciavano e le lacrime secche sulle guance, fino a casa di Francesca, fino a sentirsi salva. Lei non le fece nessuna domanda, la medicò e le diede dei vestiti puliti. Il giorno dopo la convinse a denunciare il fatto, a proteggersi da quel pazzo che voleva ucciderla. I carabinieri lo trovarono che era steso sul divano, con una bottiglia di vodka vuota tra le mani, ubriaco fradicio. C’era Eveline, nel giardino di casa, Francesca le teneva la mano. Lo portarono via e mentre percorreva il vialetto la guardò negli occhi, cosa che non faceva da tempo  e le sussurrò nell’orecchio:  “Io t’ammazzo amore mio, giuro che lo farò. Appena tutto questo sarà finito smetterai di darmi fastidio.” Un brivido le passò lungo la schiena  ma non lo diede a vedere. Era finita. Era libera, lui non le avrebbe più sfiorata nemmeno con gli occhi. A trentacinque anni la sua vita poteva finalmente ricominciare. E Francesca le sarebbe stata vicino, l’avrebbe aiutata a vivere di nuovo, a piccoli passi, senza farle perdere nemmeno un momento di quella libertà tanto meritata, fino a quando non sarebbe stata pronta di farsi un’altra vita con un altro uomo, da cui non si sarebbe mai lasciata sottomettere, da cui non avrebbe completamente dipeso, dal quale avrebbe saputo anche allontanarsi se necessario. Perché adesso era più forte. Era una donna. E non c’era niente di meglio al mondo. 

                                                                    -Rebecca 

Domani torno.

Domani torno, ci vediamo in stazione.
Domani fatti trovare lì 10 minuti prima così l'attesa ti regalerà il mio bacio migliore.
Domani copriti che fa freddo.
Domani torno, vienimi incontro.
Scansa la gente, corri gridando il mio nome.
Domani torno, abbracciami forte.
'Che se mi abbracci, fa meno paura.
Domani torno con una valigia carica di sogni, tutti da condividere con te.
Domani torno, non aver timore.
Domani torno, guardami come fosse sempre la prima volta.
Domani torno, mettiti il maglione amore che questo mondo è freddo quando non ci teniamo le mani.
Domani torno, sii pronta a prendermi.
Domani torno, baciami in stazione, non pensare ad altro. Ruba altro tempo, dammi mille baci e poi altri cento.
Domani torno, fatti vedere dal finestrino. Inizia a sorridere che ricomincio anch'io.
Domani torno, giuro che torno.
Domani torno e ho una cosa da dirti.
Domani torno, ti amo da impazzire.
Domani torno e nemmeno i chilometri sono così tanti.
Domani torno, baciami le paure.
Domani torno e ti prenderò la testa tra le mani e ti accarezzerò piano le guance rosee e ti guarderò negli occhi e ti dirò che 'casa' sei tu. Che non importa dove, basta che ci sia la tua testa sul mio petto. Quella sarà sempre casa.
Domani torno da te, a casa.
Domani torno amore, croce sul cuore.

                          -MH

giovedì 15 ottobre 2015

Se potessi rivederti.

“Se potessi rivederti, un'ultima volta ancora, ti direi che con te ho capito cosa volesse dire "essere felici".
Se potessi rivederti, solo per un giorno, ti bacerei per imparare a sorridere di nuovo.
Se potessi rivederti, così di sfuggita, all'incrocio dei miei passi, ti guarderei negli occhi e ti ripeterei che più belli dei tuoi non ce ne sono.
'Che io non ci vedevo solo il mare là dentro.  C'avevi tutte le meraviglie del mondo. E bastava guardarli per vederle tutte.
Se potessi rivederti, per volere del caso, ti chiederei come si sta.
Ti chiederei come si sta senza di me.
Ti chiederei come si sta senza di noi.
Se potessi rivederti, come mi avevi promesso, ti direi che mi sono innamorata di te.
Ti direi che ho mille foto impresse nella mente che parlano di noi.
Ti direi che le canzoni suonano tutte uguali da quando non ci sei più.
Ti direi che forse qualcosa di buono lo so fare.
Ti direi che quella camicia che porti sempre ti sta particolarmente bene, ma sarebbe meglio se stesse a terra.
Ti direi che ho voglia di fare l'amore con te perché immaginarlo non basta più.
Se potessi rivederti, rubare un attimo al tempo e rivederti, ecco se potessi rivederti te lo direi.
Ti direi che ti amo e che non riuscirò ad amare nessun'altra.
Ti direi che sei tu quella che ogni volta mi fa mancare il fiato.
Ti direi che Einaudi aveva scritto quel pezzo proprio per farci baciare.
Ti direi che per averti vicina, non faccio che parlare di te.
Ti direi che le attese non esistono più, da quando non ci sei.
Insomma, se potessi rivederti, ti chiederei di vederci domani.
E dopodomani.
Se potessi rivederti ti chiederei di restare, non più per un po'.
Ti direi che se tu restassi, forse insieme la felicità non è poi così tanto una fregatura.
Se potessi rivederti, anche un giorno lontano, inizierei a contare quanti ne mancano.
Se potessi rivederti sarebbe la mia vittoria più grande.”

                            -MH